Biologia e biografia:
introduzione al testamento biologico


di Maddalena Gasparini



 

Dal concepimento alla morte
La pratica femminista ci ha insegnato a guardare alla vita e al corpo che la incarna a partire dalla nostra esperienza. Forse per questo da qualche tempo ho un imbarazzo crescente a parlare di aborto e contraccezione, maternità e riproduzione, sia pure assistita, ormai lontane dalla vita vissuta, almeno per me e la mia generazione. Trasformati da esperienza in “questioni eticamente sensibili”, le tappe della vita rischiano l’allontanamento dal terreno loro proprio: quello delle emozioni, dei timori, del ripudio o della fascinazione, cui è necessario guardare per sottrarle agli automatismi legati a una tradizione che svilisce le esperienze del corpo al fine di sottometterle alle regole, non importa qui se della legge o del mercato, della religione o degli “stili di vita”.
Della nostra quotidiana esperienza fa parte piuttosto vedere i nostri vecchi ammalarsi e giungere alla fine della vita, dandoci messaggi ben lontani dai fasti della medicina che salva le vite e da quell’immaginario della morte domestica che ci portiamo nel cuore mentre assistiamo all’unica forma di morte legittimata alla comunicazione: quella violenta delle guerre e delle uccisioni.
Ma il tempo non è passato solo per me o la mia generazione, attenta agli aspetti politici delle vite private. “Emancipazione del corpo” è la felice espressione con cui Lea Melandri designa l’approdo del corpo nello spazio pubblico, corpo femminile o femminilizzato, diversamente esposto a seconda del fine perseguito. Ricordiamo la foto di Therry Schiavo, in stato vegetativo, che sembra guardare la madre (che si opponeva alla sospensione della nutrizione artificiale) e vediamo le foto di Eluana Englaro come lei voleva essere ricordata, libera di decidere della sua vita. Sarebbe interessante andare a vedere quanto la cronaca (giudiziaria e bioetica) insiste sui casi che hanno al centro una donna; o il diverso effetto sulle reazioni delle persone.

Gli scopi della medicina
A questa presenza ormai quotidiana di corpi da salvare o curare ha contribuito in modo consistente la medicina. Nel 1997 uscì un corposo documento (elaborato da gruppi di lavoro di 13 nazioni, con l’assistenza dell’OMS e sotto il coordinamento dello Hasting Center; vedi: www.qlmed.org/Scopi/index.html ) che si interrogava sugli “Scopi della medicina”. Era ormai evidente che gli sviluppi delle conoscenze e delle possibilità di intervento andavano ben al di là dell’antico “sanare infirmos, sedare dolorem”: dal concepimento alla morte è possibile se non prevista, l’assistenza medica
In molti casi si è potuto guardare all’intervento medico come a una nuova possibilità di libertà; da schiave del nostro corpo, destinato alla seduzione e alla riproduzione, abbiamo pensato di diventarne padrone coi contraccettivi o la chirurgia estetica, le biotecnologie riproduttive o il cambiamento dei caratteri sessuali. Non sempre consapevoli che andavamo a confermare quell’impianto che ci pretende in un qualche rapporto col nostro corpo piuttosto che coincidenti a esso: il corpo che siamo, senza il quale non avrebbe senso parlare di psiche o di mente, di desideri o di limiti. Non sempre consapevoli che il ricorso alla medicina porta con sé complessi interrogativi sul processo decisionale: chi decide? Come viene presa una decisione? È legittimo utilizzare tutte le procedure messe a punto nei laboratori? È obbligatorio ricorrere a ogni cura possibile? Possiamo cogliere l’ambiguità del nostro rapporto con la medicina, cui chiediamo di intervenire da un lato e di astenersi dall’altro; proprio come pratichiamo la nostra libertà ma pretendiamo insieme protezione e assistenza quando necessario.
Nel confronto con la medicina si è confermata la rappresentazione del corpo femminile come corpo malato e bisognoso e la femminilizzazione del corpo laddove malato ed eventualmente prossimo alla fine. “Il legislatore –scrive Maria Grazia Campari - ha assunto l’iniziativa nelle forme del controllo sul corpo femminile e della proibizione, che negano autonomia e responsabilità”
Lo sviluppo delle tecnologie biomediche, “il convitato di pietra” (Boccia e Zuffa) dei nostri discorsi, la famigliarità con esse e il favore di cui godono per essere in grado di salvare o allungare vita e migliorarne la qualità, la crescente maneggevolezza degli apparecchi biomedici in grado di sostenere e prolungare la vita, contribuiscono a complicare le scelte; sia in astratto che nella vita concreta. L’ampio ricorso alla retorica vitalista che sollecita l’orrore del “lasciare morire di fame” trova qui il terreno adatto per spostare il pensiero da una faticosa pratica di libertà all’automatismo della conservazione di una tradizione ormai insensata.

C’è un tempo, prima di morire

Disabituati alla morte non violenta, quando si approssima è frequente il ricorso all’ospedale anche se siamo informati della sua scarsa utilità, quando non del danno possibile: più della metà delle morti avvengono in ospedale, spesso a breve distanza dal ricovero. Del resto la maggior parte delle morti sono da attribuire al cancro e alle malattie cronico-degenerative; inevitabilmente dunque al suo tempo e al suo modo contribuiranno anche le decisioni mediche.
Sappiamo poi che c’è un tempo, prima della fine, in cui la maggior parte delle persone non sono più pienamente capaci di comprendere quello che avviene e partecipare alle decisioni che le riguardano. Un tempo che riguarda quasi tutti in prossimità degli ultimi giorni (circa l’85% delle persone perde il contatto o la coscienza negli ultimi giorni di vita) e che in alcuni casi può riguardare un tempo più o meno lungo (anche molti anni nello stato vegetativo).
Il testamento biologico cerca di dar voce a questo tempo, in cui altri debbono decidere per noi. È uno strumento che può aiutare chi prende le decisioni a farlo “con” piuttosto che “per”, come ben spiega la sentenza che autorizza la sospensione della alimentazione e idratazione artificiale di Eluana Englaro. Solo così una malattia che porterà alla fine della vita, può diventare il compimento di una biografia che medici, famigliari, istituzioni sono chiamati a rispettare.
Non sempre, anche fra i medici, c’è consapevolezza piena delle scelte compiute. Sospendere un trattamento salvavita non è più grave dell’avviarlo. Probabilmente molti drammi potrebbero avere una diversa evoluzione se il “dovere di salvare la vita” non scattasse automaticamente, anche quando l’evidenza (scientifica) ci dice che sarebbe meglio evitarlo: per es rianimare una persona dopo un prolungato arresto cardiaco (ricordo “Al di là della vita”, di Martin Scorsese) o alimentare per sondino una persona con demenza in fase avanzata. Ma a limitare l’intervento medico non è (non dovrebbe essere) solo l’appropriatezza delle decisioni, ma anche le preferenze della persona malata.
All’Ospedale di Modena, il direttore del reparto di neurologia dove la Sig.ra Galano, affetta da sclerosi laterale amiotrofica aveva dichiarato di non voler essere “attaccata” a un respiratore, ha chiesto l’intervento del giudice tutelare e la nomina di un “amministratore di sostegno” per evitare che l’anestesista di turno, vedendo la paziente in grave difficoltà di respiro la intubasse piuttosto che accompagnarla alla fine con l’aiuto farmacologico del caso. Affidarsi dunque, al medico o a una persona che ci conosce abbastanza da scegliere “con” noi, anche se non ci siamo con la testa, è spesso inevitabile. Si reincontra così, alla fine della vita, la necessità degli altri, così come è stata necessaria una donna perchè quella vita venisse al mondo. Torna l’attenzione alle relazioni, e al rischio che portano con sé: le relazioni con chi ci ama e “non ci lascia andare” o con chi non vede l’ora che ce ne andiamo, con chi perde la ragione e, imprigionata in una soffocante relazione di cura, se ne libera uccidendo la persona amata.
È difficile discriminare fra i sentimenti che ci legano agli altri e la inevitabile proiezione delle nostre preferenze sull’altro. Ma il sostegno alla battaglia di Beppino Englaro non prende avvio dal giudizio sullo stato vegetativo, ma dalla difesa della libertà di Eluana; così come difenderemmo quella di chi chiede di essere mantenuto in vita.

Il Testamento biologico
Le parole per dirlo. E’ questo il contesto in cui nasce il testamento biologico, traduzione ambigua di living will, che la Francia, per es, ha tradotto in testament de vie; esso infatti è uno scritto che anticipa desideri e preferenze per un tempo in cui potremmo non essere più in grado di sostenerle da sole, ma che fa certamente parte della nostra vita. Una consegna dunque (il testamento) che attiene alla vita della persona che le scrive. Anche se può includere disposizioni in merito alla salma, agli organi che possono essere donati, al funerale, il testamento biologico riguarda la vita e apre a una continuità biografica anche laddove il cambiamento delle condizioni di salute possono indurre a dire “non è più la stessa persona”. Questa è una delle obiezioni più frequenti di chi mette in dubbio la legittimità morale del testamento biologico e non è priva di fondamento se pensiamo a chi ha capacità cognitive compromesse. E tuttavia a me pare che le decisioni, che comunque saranno prese, debbano essere rispettose delle biografie e dei desideri di quella persona; che d’altra parte continua a essere riconosciuta per quella che era da chi se ne prende cura.
La denominazione nella letteratura internazionale anglofona è invece più esplicita: le direttive anticipate (advance directives) esprimono una precisa volontà, vincolante. Non la pensa allo stesso modo il Comitato Nazionale di Bioetica che nel 2005 scrisse un documento al proposito, parlando di dichiarazioni anticipate, espressione di un’opinione cui non è data certezza di essere tradotta nella prassi.
La forma certamente meno problematica di direttive anticipate è quella che prende il nome di pianificazione anticipata delle cure, specifiche per malattia, destinate a essere aggiornate nel corso della malattia insieme al curante.
Il contenuto delle direttive anticipate, sulla base dell’esperienza dei paesi dove hanno riconoscimento giuridico, può variare da generiche dichiarazioni a precise istruzioni riguardanti condizioni cliniche e possibili interventi o trattamenti (per es la rianimazione, la ventilazione o l’alimentazione artificiale). Esse includono anche la nomina di un fiduciario, cui può spettare il compito di semplice garante del rispetto delle disposizioni o il complesso compito di contribuire alle decisioni.

Restituzione del 4-02-09

29-01-09